Set 22, 2024

Perfino i giornali della borghesia italiana fanno disinformazione su Milei. E non è così strano

Che Javier Gerardo Milei possa venir considerato un mostro da una vasta parte dell’arco parlamentare italiano, nonché dalla stampa a libro paga di questo, non sorprende. In fin dei conti, ad accomunare circa quattro quinti della classe politica italiana è una concezione statal-dirigista-corporativa dell’economia (nonché della società in generale) che vede nel peronismo argentino la sua massima realizzazione. Quel peronismo a cui Milei ha dichiarato guerra, e che ha iniziato a demolire (anzi, a segare con la sua iconica motosega) dal primo giorno di lavoro.

Sorprende di più, invece, che a riservargli critiche – oltretutto infondate – siano i principali organi di stampa della borghesia italica, segnatamente il Sole 24 ore e il Corriere della Sera. Giornali di proprietà rispettivamente di Confindustria e dei principali gruppi economici italiani. Giornali le cui linee editoriali dovrebbero teoricamente essere ostili al tassa-e-spendi e favorevoli a chi promuove concorrenza, apertura del mercato, riduzione della spesa pubblica improduttiva e abbassamento delle tasse. Cioè a tutto ciò che sta facendo il Presidente argentino.
Invece, sia al Sole che al Corriere sembrano molto impegnati a portare avanti lo storytelling di un Milei incapace di mantenere le promesse fatte in campagna elettorale, in particolare quella principale: ridurre l’inflazione.

Dal 25% al 4% su base mensile

Partiamo dai fatti.
Da quando Milei è diventato Presidente dell’Argentina (cioè dal 10 dicembre 2023), l’inflazione del Paese sudamericano è passata dal circa il 25% mensile al 4%. Ciò a sua volta ha consentito all’Argentina, per la prima volta in 12 anni, di chiudere in attivo un bilancio.

Un risultato riconosciuto sia dalla stampa internazionale sia dalla popolazione argentina, almeno a giudicare dal consenso di cui gode Milei e dal “sentiment” desumibile dai social network.
La stampa italiana, tuttavia, sembra più interessata al dato annuale, che ovviamente dipende anche dall’esecutivo precedente; così il Corriere della Sera, in un post su X con link all’articolo annesso, titolava che l’inflazione “s’impenna” (un po’ come la lira ai tempi di Carcarlo Pravettoni) arrivando a superare “il 236%”. Con una discreta onta per un giornale, il post si è beccato la nota dei lettori, il meccanismo anti fake-news che consente agli utenti di aggiungere informazioni utili a post ritenuti ambigui o fuorvianti; tale nota specifica, giustamente, che

mancano due elementi di contesto sui dati economici riportati: l’inflazione in Argentina è sostanzialmente invariata dal mese di Maggio; il dato è su base annuale, mentre Milei è salito al governo solo a Dicembre 2023

Sul Social Network di Elon Musk, altri giornalisti e commentatori hanno aggiunto altri dati interessanti, ad esempio l’andamento del rischio sui CDS Argentini: come si può vedere, esso è ai minimi da ottobre 2023.

Il corporativismo piace a tutti

Non è questa la sede per elencare altri risultati dell’esecutivo argentino (avevamo già scritto degli effetti della deregolamentazione del settore immobiliare). Quello su cui preme riflettere è, come detto, l’atteggiamento della stampa italiana teoricamente più vicina a quelle posizioni.

C’è chi ritiene che, paradossalmente, la causa degli articoli anti-mercato sulla stampa siano causate proprio dalla più antica dinamica di mercato: la necessità delle imprese di assecondare i clienti. In un Paese in cui il sentiment anticapitalista è diffuso tra la stragrande maggioranza della popolazione, e in cui le persone non vogliono essere informate, ma sentirsi dare ragione, ecco che il giornalista lega l’asino dove vuole il padrone (cioè i lettori).
Ci sarebbe materiale a sufficienza per chiedersi se l’informazione si possa considerare un fallimento di mercato in senso tecnico, e se l’unica affidabile sia quella senza scopo di lucro.

Tuttavia, senza scomodare i massimi sistemi, potrebbe esserci una ragione più semplice per spiegare il tenore degli articoli summenzionati: il fatto che, se Milei dovesse per assurdo un giorno venire a governare in Italia, una delle prime voci di spesa pubblica a cui griderebbe ¡Afuera! sarebbero quei circa 55 miliardi annui di sussidi alle imprese (tra cui i giornali). E, in ciò, non farebbe altro che realizzare ciò che altri economisti, italiani e assai meno pittoreschi di lui, proponevano già una dozzina d’anni fa. Si pensi a Roberto Perotti, commissario incaricato alla Spending Review nel governo Renzi e dimissionario perché, a suo dire, non esisteva alcuna volontà di metterla realmente in atto: nel 2014 scriveva questo articolo su La Voce, dedicato ai finanziamenti regionali.
Uno scenario troppo rischioso per quei gruppi – grandi o piccoli – che ormai dal sostegno pubblico sembrano non poter più prescindere.

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