Il 9 maggio di quest’anno l’accademico Francesco Venier (docente all’Università di Trieste), dal suo profilo X (il fu Twitter), postava un articolo del Corriere della Sera a firma di Luigi Ippolito, riportante le dichiarazioni del Ministro degli Esteri ungherese (Péter Szijjàartò) a proposito della vicenda di Ilaria Salis.
Secondo il Ministro, la suddetta vicenda ha effettivamente qualcosa di scioccante, ossia il fatto che i media italiani proteggerebbero
una persona che è venuta a Budapest con l’obiettivo di picchiare gente in strada. Davvero consideriamo persone simili come degli eroi? Andiamo, ma dove viviamo! E noi siamo accusati per il trattamento di una persona che è venuta in Ungheria con simili crudeli intenzioni! E scusate se la teniamo in carcere! Cosa dovremmo fare? metterla tra gli eroi e mostrare che questo è il futuro dell’Europa?”.
Si dirà: nulla di nuovo. Il Ministro si già espresso in questi termini ai microfoni del Tg1, “interivstato” alla maniera italiana, cioè senza uno straccio di obiezione o contraddittorio alle numerose “semplificazioni” pronunciate anche in quella circostanza. Qui le menzogne vengono ribadite, e per mero istinto di protezione della verità vale la pena usare qualche pixel per elencarle:
- L’asserzione secondo cui Ilaria Salis sarebbe andata a Budapest con l’obiettivo di “picchiare gente in strada” è, per usare un eufemismo, un grossolano riassunto del Ministro. La Salis si era recata in Ungheria per manifestare contro il mega-raduno di neonazisti (così si autodefiniscono orgogliosamente i promotori, tra cui Legio Hungaria, Hammerskin, Blood & Honor) che va in scena ogni anno l’11 febbraio, col beneplacito del governo ungherese. L’11 febbraio è chiamato “Giorno dell’onore”, e celebra i soldati ungheresi e nazisti uccisi durante la II guerra mondiale.
Contemporaneamente accade che gruppi di antifascisti da tutta Europa si rechino anch’essi là, a ricordare che non c’è nulla di normale nel celebrare i nazisti, negare l’Olocausto ed esibire svastiche tatuate sul petto.
Come spesso accade in questi casi, tra neonazisti e contestatori dei neonazisti possono scoppiare scontri fisici, soprattutto se le forze dell’ordine non fanno alcunché per evitarli. Ciò è accaduto anche l’11 febbraio del 2023. Ad ogni modo, a Ilaria Salis non è contestato di aver fisicamente picchiato qualcuno, ma di aver commesso reati nell’ambito di un’associazione criminale (Hammerband) di cui non fa neanche parte, e che comunque nulla c’entra con i fatti di Budapest. - Nessuno ha mai asserito che Ilaria Salis sia “un’eroina”: non bisogna esserlo, per esigere che vengano rispettati i propri diritti umani. I quali – tocca ricordarlo – sono così chiamati perché si applicano a qualsiasi essere umano, fosse anche un pluriomicida-pedofilo-stupratore-satanista condannato in via definitiva. Ilaria Salis, ad ogni modo, non è nulla di tutto ciò: al contrario, al momento è innocente, visto che in qualunque Paese liberale si è tali fino a che una sentenza non stabilisca il contrario. Il processo è appena iniziato.
Ad ogni modo, la carcerazione preventiva in attesa di processo non è ovviamente un fatto di per sé scandaloso: la si pratica in qualunque Paese, se esistono i rischi di reiterazione del rato, fuga o inquinamento delle prove. Ciò che il mondo (civile) contesta all’Ungheria non è quindi di per sé la carcerazione preventiva, ma appunto le condizioni in cui Salis (nonché qualunque carcerato ungherese) è detenuta. Se è vero che la civiltà di un Paese si vede dal modo in cui tratta i detenuti, ecco un riassunto di come è stata trattata Salis: messa in isolamento in una cella di 3 metri quadrati, con l’unica compagnia di cimici e ratti, senza cambio di vestiti, assorbenti, senza alcun contatto con l’esterno per mesi. Portata in un’aula di tribunale con manette ai polsi e catene alle caviglie, come se potesse sbranare da un momento all’altro poliziotti grossi il doppio di lei.
Fatte queste premesse, veniamo al vero tema: non tanto le dichiarazioni del Ministro di un governo orgogliosamente illiberale e fascistoide, quanto il fatto che esse vengano condivise con un significativo “FYI” (For Your Information) da un accademico italiano che si definisce “70% libertarian e 30% liberal”. Definzioni che, si suppone, piacciano anche a qualche commentatore del suddetto post, compresi quelli che dicono che “è difficile dar torto al Ministro ungherese”.
Tra una persona (poco importa se connazionale e donna) detenuta in attesa di processo in condizioni inaccettabili in un Paese straniero, e un Ministro di quello stesso Paese che calpesta ogni giorno i più basilari principi del liberalismo, ci sono “liberali” che si schierano dalla parte di quest’ultimo.
Inspiegabile? Non secondo Michele Boldrin, il quale ritiene che
Gli autoproclamati “liberali” italiani sono all’80% dei reazionari (frequentemente clericali) motivati da anticomunismo viscerale (= QUALSIASI argomento arrivi da sinistra è erroneo a priori), nostalgici di legge e ordine, desiderosi di non pagare alcuna imposta e possibilmente di evaderla (BS non era il loro leader per caso) e sognatori dell’Italia giolittiana o persino cavouriana.
In mancanza di quest’ultima si accontenerebbero anche di quella del 1930-37…non si spingono fino al ’38 perché hanno imparato a dire che ora stanno “con Israele senza se e senza ma”, quindi le leggi razziali che i loro antenati tranquillamente accettarono non sono più “portabili” nella buona società.
Si può aggiungere che persone come Ilaria Salis – le cui idee politiche immagino assai lontane dalle mie, eccezion fatta ovviamente per l’antifascismo – danno particolarmente fastidio non solo ai suddeti autoproclamati “liberali”, ma in generale all’italiano medio, da sempre convinto che il segreto della longevità consista nel farsi gli affari propri, come recita il noto proverbio elevato al rango di filosofia nazionale. Filosofia che fu madre del fascismo nel secolo scorso, e che oggi continua ad esser madre di ogni mafiosità.
Filosofia, soprattutto, che spinse la parte maggiore della borghesia italiana a non prender parte alla resistenza partigiana, salvo poi sventolarla sui tavoli internazionali come prova della redenzione di un Paese intero. Una messinscena che non convinse Churchill, come testimonia la sua celebre frase sui “45 milioni di antifascisti“, peraltro titolo di un omonimo libro a firma di Gianni Oliva.
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