Mar 23, 2025

Adolescence, la criminalizzazione della mascolinità è servita. E Trump ringrazia.

Può un innocuo tredicenne di corporatura gracile trasformarsi in un efferato assassino, in grado di uccidere una coetanea a coltellate? Certamente, se è cresciuto immerso nella mascolinità (che è tossica per definizione, al punto che ormai questo aggettivo si può anche omettere). Questo è, in estrema sintesi, il messaggio che vuol trasmettere Adolescence, la mini-serie Netflix che ha stregato il Guardian e la stragrande maggioranza di coloro che l’hanno vista.

Ambientata nel Regno Unito al giorno d’oggi, Adolescence segue le vicende giudiziarie di una famiglia – i Miller – il cui membro più giovane, Jamie (magistralmente interpretato Owen Cooper) – viene arrestato con l’accusa di aver accoltellato a morte una sua compagna di scuola, Katie. Non si tratta tuttavia di un giallo nel senso stretto del termine: la colpevolezza di Jamie risulta evidente già alla fine del primo episodio, quando la polizia mostra al ragazzo (e al padre lì con lui) il filmato delle telecamere a circuito chiuso che hanno ripreso l’omicidio.

Segue il secondo episodio, in cui la polizia va a cercare l’arma del delitto nella scuola di Jamie (cosa che sembra più un pretesto narrativo per indagare quel microcosmo). L’ispettore capo Luke Bascombe e il sergente capo Misha Frank si ritrovano in un mondo di bullismo, incompetenza dei docenti e crisi isteriche adolescenziali.

Una seduta quasi spiritica

L’apice viene però raggiunto nel terzo episodio. Sono passati sette mesi dal delitto: Jamie si trova in una struttura psichiatrica minorile, e una psicologa, Briony Ariston, si reca da lui per una seduta (deve redigere un profilo del ragazzo e capire come è arrivato a compiere il delitto).
Questo episodio – oggettivamente un capolavoro per interpretazione e regia – rappresenta il “cuore ideologico” dell’intera serie, e, al tempo stesso, il suo più grande limite. Jamie sembra un individuo completamente diverso dal ragazzino spaventato del primo episodio, quello che si era fatto la pipì a letto alla vista della polizia. A tratti quel ragazzino di tredici anni sembra un criminale navigato, reduce da una rissa con un altro recluso, e che all’inizio della seduta quasi “flirta” con la dottoressa. Quest’ultima, dopo qualche scambio iniziale, inizia la sua serie di domande, che riguardano un tema in particolare: la mascolinità. La psicologa vuol sapere che abitudini avevano il padre e il nonno di Jamie: se erano persone a cui piace “riparare le cose e andare al pub”, perché evidentemente questi sono indizi (o forse bisogna dire “sintomi”?) della famigerata mascolinità.
Jamie all’inizio sembra infastidito da queste domande, ma dopo un po’ rivela che il padre aveva l’abitudine di “girarsi per non guardare” gli errori del figlio nelle gare sportive a cui l’accompagnava, e ciò provocava grande turbamento nel piccolo.
Dopodiché si arriva al dunque: le attività online di Jamie e l’incontro con la “Manosfera”. Emerge che Jamie è convinto di essere brutto, e che quindi non potrà mai avere una chance con le ragazze, salvo circostanze eccezionali. Le quali sembravano essersi manifestate qualche mese prima: Katie aveva mandato foto in topless ad un compagno che le piaceva, ma questi le aveva diffuse, provocando un’ondata di slut shaming a scuola. Così Jamie aveva provato a cogliere l’occasione: aveva mostrato empatia con Katie e disprezzo per chi l’aveva umiliata, sperando con ciò che la ragazza si convincesse a dargli una chance. Invece costei aveva risposto di “non essere così disperata”, e, non paga di ciò, aveva iniziato a cyberbullizzarlo su Instagram, con una serie di commenti che lo dipingevano come un Incel redpillato. La rabbia di Jamie per questa situazione era stata il movente dell’omicidio.
Nel corso dell’interrogatorio, Jamie ha due attacchi d’ira, durante i quali urla, batte le mani sul tavolo, lancia oggetti, ma soprattutto pronuncia frasi che nessun tredicenne al mondo – fosse anche cresciuto a pane e video di Andrew Tate – pronuncerebbe mai (“Cosa cazzo hai fatto?! Gli hai fatto un cenno come una cazzo di regina eh?” grida quando si accorge che la guardia sta per entrare – di nuovo – nella stanza). Roba che si addice più ad un cinquantenne con due divorzi alle spalle che ad un ragazzino appena entrato nell’adolescenza. Ma questo è esattamente il sottinteso della serie: l’esposizione a certi contenuti online, unitamente ad un clima familiare “tossico”, può trasformare un innocente ragazzino in un mostro. E’ come se, nei momenti di massima tensione o ira, una sorta di “demone incel” prendesse il sopravvento sul ragazzo. Anzi, Jamie è una sorta di caricatura dell’incel: ossessionato dal sentirsi brutto al punto che, mentre la guardia lo trascina via, chiede ripetutamente alla psicologa se lei lo apprezzi.

Il gran finale: il padre chiede perdono in lacrime

Se il terzo episodio aveva chiarito allo spettatore che Eddie Miller, padre di Jamie, era stato un genitore orribile, il quarto si concentra proprio su di lui, nel giorno del suo cinquantesimo compleanno. Dopo una giornata rovinata da episodi di teppismo ai suoi danni (due tizi gli imbrattano il furgone, mentre i vicini fingono di non aver visto o sentito nulla), l’uomo sente al telefono (insieme al resto della famiglia) Jamie, che annuncia un cambio di strategia processuale: in pratica, ammetterà la sua colpevolezza.
Nella scena finale della serie, Eddie entra nella stanza del figlio, si siede sul lettino, prende un orsacchiotto, lo pone sotto le coperte e, in lacrime, pronuncia la fatidica frase: “Mi dispiace, ragazzo. Avrei dovuto fare di meglio”.

Per certi versi, questo pare il finale con cui Netflix vorrebbe si chiudesse ogni serie: il maschio-bianco-etero-cisgender che chiede perdono in lacrime per esser causa d’ogni male al mondo (anche in Ni una màs il padre della protagonista aveva una storyline di questo tipo). In effetti, nell’intera serie non c’è un singolo personaggio maschile positivo, con la parziale eccezione dell’ispettore Bascombe: gli sceneggiatori lo fanno scorreggiare in macchina accanto alla collega nella prima scena – perché è pur sempre un uomo – ma da quel momento in poi si comporta come un cittadino impeccabile. I più maliziosi insinuano che il fatto che Bascombe non sia bianco possa giocare un ruolo. La guardia addetta ai monitor della struttura psichiatrica è un individuo viscido e inquietante, e dal modo in cui fissa la dottoressa Ariston sembra voglia saltarle addosso da un momento all’altro; l’impiegato del centro commerciale in cui Eddie si reca nel quarto episodio è anch’egli un adolescente bianco che pare caduto nella rete della Manosfera, visto che dice di supportare la causa di Jamie perché “ha visto le foto della ragazza” (col sottinteso che era una poco di buono e quindi se l’è cercata) e invita Eddie ad organizzare una raccolta fondi per la difesa; gli insegnanti della scuola sono quasi tutti incapaci di fare il proprio mestiere.

Il mondo reale: gli Incel odiano, ma quasi mai uccidono

Come riporta Wikipedia,

L’idea per la serie fu originariamente concepita da Stephen Graham come risposta a un improvviso aumento di crimini violenti con coltelli in Gran Bretagna, tra cui l’omicidio di Ava White. Decise di creare un prodotto che esplorasse la motivazione di atti estremi di violenza contro le ragazze da parte di ragazzi, e collaborò con lo sceneggiatore Jack Thorne. Parlando al programma artistico Front Row di BBC Radio 4, Thorne affermò che i due sceneggiatori volevano “guardare negli occhi la rabbia maschile” ed esaminare l’influenza di personaggi pubblici come Andrew Tate sui giovani ragazzi

Una serie di intenti assai nobili, ma il problema di Adolescence è che mette in relazione due fenomeni – i femminicidi e la subcultura Incel – che, numeri alla mano, non sono l’uno causato dall’altro.
Intendiamoci: stragi commesse da Incel ce ne sono state, nel corso degli anni: la più celebre resta quella di Isla Vista nel 2014, ad opera di quell’Elliot Rodger a cui molti Incel ancor oggi inneggiano (l’espressione “go ER” è un invito ad emularne le gesta).
Tuttavia, sebbene non esistano statistiche affidabili che distinguano tra la violenza di genere commessa da Incel e quella commessa da “normies”, si può ragionevolmente ipotizzare che la percentuale di atti di violenza di genere attribuibili agli Incel sia estremamente bassa rispetto al totale. La ragione principale l’ha spiegata Simon Cottee, ricercatore in criminologia alla Kent University, in un articolo del 2020 (“Incel (E)motives: Resentment, Shame and Revenge”), scriveva:

sebbene l’odio sia effettivamente infuso nella visione del mondo incel, quest’ultima non impone la violenza contro le donne come strumento necessario all’autodifesa del gruppo. (…) Per molti Incel lo scopo finale non è la violenza omicida, ma la rassegnazione fatalistica. Il terrorismo di ispirazione incel è infatti statisticamente molto raro. (…) La maggior parte degli Incel rispetta la legge e cerca altri Incel online, non per coordinare atti di violenza, ma per condividere le proprie esperienze e allontanare i sentimenti di solitudine

Demonizzare l’intero genere maschile è il vero regalo agli Andrew Tate

Adolescence trasmette dunque il messaggio che la mascolinità porta alla misoginia, e quest’ultima può rendere chiunque – compreso un tredicenne dall’aria innocente – un mostro assassino. Ergo, la mascolinità va combattuta con ogni mezzo e in ogni modo.
A portare avanti questa visione del mondo c’è ormai una certa letteratura, anche in Italia. Uno dei libri più letti fino a poco tempo fa era Il costo della virilità, un saggio in cui le cui autrici spiegano che, se gli uomini si comportassero come le donne, l’Italia risparmierebbe un centinaio di miliardi di euro all’anno. Il ragionamento alla base di questa stima è che i comportamenti antisociali delle donne costano molto meno di quelli degli uomini. Il filosofo e Youtuber Riccardo Dal Ferro ne parlò in un video di un annetto fa, definendo le stime presentate nel libro “parziali, deviate, con interpretazioni a dir poco fantasiose dei dati”. Ma il passaggio più significativo del suddetto video, che può spiegare assai meglio di Adolescence le dinamiche maschili odierne, è il seguente:

Il maschile esiste. Il maschile è una categoria del nostro mondo, che non possiamo semplicemente nascondere sotto il tappeto o sotto due chili di trucco. Demonizzarlo o nasconderlo porta inevitabilmente a manifestarlo in modi reazionari. Se demonizzo quella condizione, quando quella condizione viene conosciuta da chi la porta (un adolescente), io sto producendo un adolescente che, vivendo con senso di colpa e frustrazione quella condizione, finirà poi per cercare valvole di sfogo anche negli Andrew Tate

Essere adolescente maschio oggi: messaggi contrastanti

L’adolescente maschio odierno si trova dunque davanti a messaggi contrastanti e inconciliabili. Da un lato quello delle istituzioni (a partire dalla scuola) e dei prodotti culturali “progressisti” (film, serie TV, libri), secondo cui la mascolinità è qualcosa da tenere a bada perché intrinsecamente pericolosa, potenzialmente letale; e poiché questa visione del mondo è non di rado ispirata da movimenti femministi, aggiunge una certa idealizzazione della donna, dipinta come del tutto disinteressata ad aspetti materiali quali l’avvenenza fisica o lo status economico.
Tutto ciò si scontra tuttavia in modo drammatico con la realtà che quell’adolescente vive ogni giorno, nella quale tutti quegli aspetti contano eccome; e in cui la mascolinità – financo quella tossica – sembra ancora suscitare un certo fascino nel genere femminile.
Una sintesi finale l’ha scritta Alessandro Lolli (autore de La guerra dei Meme) sulla propria pagina Facebook:

In altre parole non riuscirete a convincere vostro figlio -o i vostri alunni- che non esistono vincitori e perdenti, che le ragazze non sono importanti, che non è importante la popolarità e che non ci sia un largo consenso su quali corpi sono considerati attraenti e quali no. Non ci riuscirete perché è falso e lo sapete anche voi, lo sanno loro e se ci proverete marcherete solo una distanza incolmabile tra voi e lui.
Non negare il mondo in cui vive ma fornirgli gli strumenti per affrontarlo. Con le parole, certo, ma soprattutto con i fatti, con un modello. Troppe volte si è cercato e si cerca di combattere le redpill presentando ai giovani una versione edulcorata e idealistica della società, finendo per inverare proprio quella astrazione dialettica postulata dai redpillati stessi, ovvero la bluepill. No, l’umiliazione sportiva esiste, come esiste il rifiuto delle ragazze e sono entrambe esperienze di merda. Insegnare ad accettare e affrontare queste esperienze di merda è ciò che un tutore, un fratello maggiore, un amico più grande, un genitore deve essere in grado di offrire.

 

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