Nella tornata elettorale che ha segnato il minimo storico della partecipazione al voto (49,69%), sui Social Network e in televisione è andato in scena il prevedibilissimo piagnisteo riassumibile con “dove andremo a finire, signora mia? Che ne è della partecipazione democratica, che fino a pochi decenni orsono spingeva alle urne oltre l’80% degli aventi diritto al voto?”.
Tra coloro che sono andati a votare (categoria che include anche lo scrivente, n.d.r.), serpeggia una certa aria di superiorità morale; chi non si reca al seggio, secondo costoro, è in primis un ingrato verso chi ha “dato la vita” per farci avere tale diritto, e in secundis un villano privo di senso civico, in quanto il voto sarebbe non già un diritto, ma un dovere.
Di converso, chi si reca sempre al seggio è ipso facto un cittadino esemplare, autorizzato per ciò ad incedere a testa alta e petto in fuori in mezzo alla folla.
In questa visione del mondo, come si può constatare, non ha nessuna importanza il come ci si presenti all’appuntamento elettorale, ossia quanto e come informati. Poco o nulla importa, cioè, se si è persone che cercano di informarsi in modo il più possibile approfondito sui temi, i problemi, le proposte dei vari partiti per risolverli, oppure se si appartiene a quella vasta maggioranza d’individui che non leggono altro giornale all’infuori de La Gazzetta dello sport, che non ascoltano un telegiornale dall’89 e che non hanno mai letto un libro in vita propria.
“La democrazia è il governo degli Hobbit e dei tifosi”
Che l’ignoranza e la disinformazione rappresentino le condizioni in cui versa la maggioranza degli elettori è un dato acclarato, e non dipendono neanche da questioni etico-morali. Lo ha spiegato egregiamente Jason Brennan, docente di filosofia alla Georgetown University e autore del saggio Contro la democrazia. Brennan divide gli elettori in 3 categorie:
- gli Hobbit (riferimento alla saga de Il Signore degli anelli), ossia la massa di coloro che non seguono la politica e l’attualità perché, semplicemente, non sono interessati
- gli Hooligans (i tifosi), cioè i militanti, che si relazionano ai partiti o alle fedi politiche d’appartenenza come si relazionerebbero alla squadra del cuore: la ragione è sempre dalla nostra parte, il torto sempre dall’altra. L’avversario politico, per costoro, non è un individuo rispettabile con idee diverse su alcuni temi: è un nemico da abbattere, un cancro da estirpare, una minaccia contro cui difendersi. Costoro, al contrario degli Hobbit, si informano eccome, ma sempre e solo in modo parziale e orientato: sono cioè affetti da un potente Bias di conferma, che li porta a rifiutare a priori (bollandole come menzognere e fallaci) le fonti che confutano la loro visione del mondo.
- i Vulcaniani, ossia la sparuta minoranza di popolazione in possesso di mezzi culturali sufficienti ad orientarsi nel mondo contemporaneo. Costoro sono individui altamente razionali, di solito con un grado di istruzione elevato, capaci di distinguere le fonti affidabili da quelle tendenziose; valutano per chi votare in base ad analisi profonde dei programmi elettorali, e sono gli unici in grado di spiegare il punto di vista di un avversario in un modo che quest’ultimo riterrebbe soddisfacente.
Prendiamo le elezioni europee, per esempio. Quanti elettori italiani sarebbero in grado di spiegare quali sono le funzioni del Parlamento europeo, quali quelle della Commissione, del Consiglio d’Europa? E quanti sanno cosa distingue quest’ultimo dal quasi omonimo Consiglio Europeo? Qualcuno ha idea di come funzionino la BCE e la Corte di giustizia europea? Quanti saprebbero distinguere le materie di competenza comunitaria da quelle di competenza nazionale?
Pare di sentirla, l’obiezione più comune a queste domande: “c’è davvero bisogno di saperle, tutte queste cose, per scegliere a chi dare il voto?”.
Ciascuno valuti, signori miei. C’è davvero bisogno di informarsi sulla scuola a cui si vogliono iscrivere i figli, prima di iscriverli? C’è davvero bisogno di confrontare varie offerte di alberghi e voli, per andare in vacanza? Non sarebbe più semplice prenotare nella prima struttura che si trova e affidarsi alla sorte?
Naturalmente qualcuno sobbalzerà sulla sedia dall’indignazione, a veder paragonata la scelta d’una scuola o d’un albergo al voto democratico. E in effetti una certa differenza c’è: nei primi due casi si tratta di scelte le cui conseguenze ricadono sull’individuo, così come le responsabilità. In termini più semplici: la scelta disinformata avrebbe conseguenze tangibili sul singolo individuo che l’ha operata, e costui non potrebbe incolpare altri che sé stesso. In democrazia succede il contrario: la responsabilità è condivisa con milioni di altre persone, e le conseguenze di certe scelte nefaste non sono sempre evidenti nel breve periodo. Il fatto che un Paese accumuli un debito monstre, ad esempio, o che crei un sistema pensionistico insostenibile sul lungo termine, è oggettivamente un problema, ma solo per le generazioni successive a quella che ha preso queste decisioni.
Si tratta, per dirlo con le parole di Brennan, di un’ignoranza razionale: gli Hobbit non s’informano perché, semplicemente, farlo costa tempo e fatica, e non esiste nessun incentivo o disincentivo per farlo. Il voto informato vale 1, esattamente quanto quello disinformato: su un piatto della bilancia c’è il tempo e la fatica intellettuale necessaria a comprendere un mondo sempre più complesso, sull’altro c’è la consapevolezza che tale sforzo verrà vanificato, visto che la stragrande maggioranza degli altri elettori non s’informerà affatto.
Il voto nella patria del familismo amorale
Se poi passiamo ad analizzare nello specifico la situazione italiana, alla disinformazione di massa si può e deve aggiungere la mentalità diffusa, o, se si vuole, la filosofia di vita nazionale. Quel quid che già Edward Banfield, sett’annni fa, aveva studiato e definito “familismo amorale“: la tendenza, cioè, a massimizzare i vantaggi materiali nel breve termine per sé stessi e per la propria famiglia/corporazione, presupponendo che tutti gli altri facciano altrettanto.
Il familista amorale si serve del voto per ottenere il maggior vantaggio a breve scadenza. Per quanto egli possa avere idee ben chiare su quelli che sono i suoi interessi a lunga scadenza, i suoi interessi di classe, o anche l’interesse pubblico, questi fattori non influiscono sul voto, se gli interessi immediati della famiglia sono in qualche modo coinvolti. (…)
In una società di familisti amorali l’elettore ha poca fiducia nelle promesse che gli vengono fatte dai partiti. Egli dà il voto in cambio di benefici già ricevuti (nell’ipotesi, naturalmente, che esista la prospettiva di riceverne altri per il futuro) piuttosto che per vantaggi promessi.
La domanda da porsi, a chi si vanta di aver sempre svolto il proprio “dovere elettorale”, è molto semplice: per chi e – soprattutto – per cosa hai votato, nel corso della tua lunga vita? Ad una rapida occhiata ai risultati elettorali degli ultimi 50 anni circa, la sensazione è che Banfield avesse dannatamente ragione. Gli italiani di allora – quelli che oggi sono anzianotti e si stracciano le vesti per l’astensionismo dei giovani – hanno votato per chi ha promesso (e permesso) loro di andare in pensione a 40 anni, di avere il posto fisso e intoccabile nella Pubblica amministrazione; hanno mandato al governo chi ha proposto di puntare tutto sulla svalutazione della liretta e sull’indebitamento, a chi ha distribuito prebende e bonus d’ogni genere; a chi ha varato condoni (edilizi e fiscali) con regolarità elvetica.
Chi in quegli anni era giovane (cioè la Generazione X), e magari pensava che il problema fossero i boomer, una volta ottenuto il diritto di voto non ha stravolto alcunché. I condoni e il protezionismo per le varie lobby proseguono imperterriti, e le battaglie a protezione dei mille orticelli clientelari si tramandano di padre in figlio, un po’ come le aziende o le licenze. Quota 100 e Superbonus hanno soppiantato le baby pensioni, con altrettanto sconquasso dei conti pubblici: il debito continua a salire, e il conto da pagare alle nuove generazioni lievita sempre di più.
Certo, l’Italia nel frattempo è entrata nell’Unione Europea, ha adottato l’Euro e ha dovuto seguire delle regole di minimo ordine sui conti pubblici; ma tutte queste (salvifiche) operazioni sono state portate avanti senza uno straccio di consapevolezza e consenso da parte dell’elettorato. Quello stesso elettorato che oggi, non a caso, pur non arrivando a chiedere l’uscita dall’UE e dall’euro, continua a rimpiangere i tempi in cui c’era la lira ed “eravamo una potenza”.
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