Apr 26, 2024

“Dateci più soldi”. Il programma del PD per le europee

Le elezioni europee costituiscono da sempre un momento speciale, per i partiti italiani: quello in cui liberarsi da ogni freno inibitore e lanciarsi in candidature di personaggi pittoreschi della “società civile” (quest’anno spicca quella del Generale Vannacci), elargizioni clientelari (dai celeberrimi 80€ renziani al suo quasi-revival odierno firmato Giorgia Meloni) e campagne elettorali dai toni estremi. Notevole anche la prassi, trasversale ai vari schieramenti, di candidare i propri leader, pur sapendo che, anche se eletti, non potranno mai andare a Bruxelles, in quanto già eletti nei Parlamenti nazionali.
Quasi mai si parla seriamente di tematiche europee, spiegando ad esempio che idea si abbia del futuro dell’Unione o di come affrontare i suoi problemi; tutto si riduce di solito allo scontro tra chi vuole “più” Europa (al punto da fondarci un partito con questo nome) e chi ne vuole “meno”.

Uno straccio di programma, comunque, i partiti devono pur buttarlo giù e pubblicarlo sui rispettivi siti web. Chi ha lo stomaco abbastanza robusto da volerseli leggere noterà quasi sicuramente un tratto che accomuna tutti i suddetti programmi: la richiesta di più soldi per l’Italia. C’è chi lo chiede con perifrasi dotte e chi lo rutta per iscritto con slogan da bar,  ma la sostanza non cambia: Eurobond, Fondi europei per questo e quell’altro, debito comune. Tutto ciò altro non è che la riproposizione in chiave internazionale di quanto accade con i programmi per le elezioni regionali (soprattutto se le Regioni in questione si trovano a certe latitudini), solo con Bruxelles al posto di Roma nel ruolo di vacca da mungere.

Inauguriamo dunque oggi una serie di articoli relativi a questo elenco di desiderata dei questuanti italiani, iniziando dal Partito Democratico.

L’indennità europea di disoccupazione

Il programma del PD si può trovare in versione breve qui. Venti pagine (di cui tre bianche e due copertine) introdotte dalla consueta supercazzola sulla necessità di cambiare l’Europa, al contempo salvandola da chi la vuol distruggere.
Quando si arriva al dunque, inizia subito la lista della spesa. Il PD spiega che

Per evitare il circolo vizioso tra recessione e austerità, è necessario avere un bilancio dell’eurozona, finanziato da specifiche risorse proprie, Eurobond e da una quota dei profitti della Bce, per perseguire politiche anticicliche attraverso l’erogazione di un’indennità europea di disoccupazione per i paesi in recessione o con un numero alto di persone senza lavoro.

Due righe che rappresentano la perfetta sintesi della retorica di Elly Schlein: parole d’ordine acchiappa-consenso (“recessione e austerità”) condite da qualche termine tecnico orecchiato dagli economisti e usato a sproposito (“politiche anticicliche”), e finalizzate appunto a far arrivare a Roma più risorse.

Prendiamo il concetto di austerità, ad esempio: tecnicamente il termine indica la riduzione della spesa pubblica di un Paese. Se si guarda all’andamento di quella italiana, si nota come negli ultimi anni (per effetto principalmente del Superbonus e valanghe di altri bonus “minori”) questa sia schizzata. Basti ricordare che il deficit nel 2023 si è attestato al 7,3%, quando sarebbe dovuto rimanere entro il 3%. A sinistra, tuttavia, l’idea che si viva in una perenne austerità è un mantra che si sente ripetere dalla crisi del 2008.
Strettamente legato al concetto di austerità c’è quello di “politiche anticicliche” (che di solito va a braccetto con l’altra espressione simil-tecnica capace di ammaliare le masse, cioè moltiplicatore Keynesiano). Politiche (economiche) anticicliche significa, in poche parole, questo:

  • se il PIL cala, si aumenta la spesa pubblica
  • se il PIL aumenta, si riduce la spesa pubblica

Gli opposti di ciò si chiamano politiche pro-cicliche. Naturalmente, nella visione del mondo del PD – ma in generale della stragrande maggioranza dei partiti italiani – le politiche anticicliche si invocano solo quando si è in recessione: quando invece il PIL torna a salire, e dunque sarebbe il momento di tagliare la spesa per rientrare dall’indebitamento, improvvisamente si apprezzano molto quelle pro-cicliche.

Ad ogni modo, spicca il fatto che tutto ciò dovrebbe essere “finanziato da specifiche risorse proprie”, a cominciare dagli Eurobond, con l’ovvio, sottinteso auspicio che a comprarli siano i contribuenti dei Paesi “frugali” (così vengono da anni definiti dalla stampa italica quelli che non si indebitano fino al collo e tengono la spesa pubblica sotto controllo).

Lotta dura contro la concorrenza fiscale (che è “sleale” per definizione)

Altro punto significativo è quello relativo alla concorrenza fiscale, che per il PD è lo sterco del diavolo. Si invoca “un’aliquota minima effettiva europea del 18% sulle imprese”, con particolare allusione a quelle che operano nel digitale.
Anche in questo caso, occorrerebbe tener presente che già oggi la stragrande maggioranza dei Paesi europei applica una Corporate tax assai superiore al 18%, e che l’aliquota minima al 15% è entrata in vigore il 1 gennaio di quest’anno. Per non parlare del fatto che, di per sé, la tassazione non è certo l’unico fattore che incide sulla scelta di un Paese da parte di un’impresa: contano tanto anche la stabilità politica, il peso della burocrazia, l’efficienza della giustizia, la qualità del capitale umano e molto altro. Non si spiega, altrimenti, perché Paesi con tassazioni anche più alte della nostra risultino più attrativi.

Si noti, comunque, il principio di fondo: siccome esistono Paesi che possono permettersi di far pagare tasse più basse (principalmente per la suddetta capacità di tenere la spesa pubblica sotto controllo), la soluzione non è che l’Italia si allinei in positivo a tali Paesi, ma che questi si allineino all’Italia. L’idea che la concorrenza fiscale possa avere dei risvolti positivi (tipo far pagare meno tasse a cittadini e imprese) sembra non sfiorare i dem.

“L’Europa che salva il pianeta” (sic!): altri 290mld€/anno per la transizione verde

Già dal titolo del paragrafo si deduce che nel PD si ignori un dettaglio: per salvare il pianeta gli sforzi della sola Europa – che già oggi è l’area che ha fatto di più in termini di riduzione delle emissioni – potrebbero non bastare, visto che Cina, India e Stati Uniti sono responsabili di oltre la metà delle emissioni di CO2 nel mondo.

Ad ogni modo, si specifica che l’Unione Europea, nei prossimi anni,

dovrà essere capace di mobilitare i 290 miliardi l’anno di investimenti necessari per la completa decarbonizzazione del sistema energetico europeo

Colpisce ancora una volta il lessico da neolingua: a quanto pare al giorno d’oggi i debiti si “ristrutturano” e i miliardi si “mobilitano” (un tempo si diceva “si spendono”, ma in effetti suona male). A parte ciò, si tratta di una cifra enorme, rispetto alla quale le coperture finanziarie non sono neanche indicate.

Miscellanea

Seguono poi altri desiderata, ad esempio altri 5 miliardi di euro per “aree urbane e piccoli comuni”. Per l’agricoltura sostenibile si chiede che

la prossima Politica Agricola Comune dovrà essere adeguatamente finanziata con un bilancio almeno pari ai livelli attuali

E’ bene ricordare che oggi la PAC pesa da sola circa un terzo del budget comunitario (poco meno di 400 miliardi di euro, dal 2023 al 2027). Di essa hanno beneficiato le fitte schiere di agricoltori che, fino a poche settimane fa, marciavano con i trattori (spesso comprati proprio con i soldi della PAC) contro l’ipotesi di eliminazione degli sconti sul gasolio e di altre agevolazioni.

Vi è infine la riproposizione in chiave europea del grande cavallo di battaglia di Elly Schlein, ovvero il salario minimo, naturalmente

parametrato alle condizioni dei diversi paesi e definito sulla base del dialogo tra le parti sociali e della contrattazione collettiva nazionale e di settore.

Qui se non altro sembra esserci la presa d’atto che i Paesi dell’UE sono molto diversi tra loro per “condizioni” (costo della vita, produttività), e che quindi imporre un identico salario minimo in tutta Europa manderebbe verosimilmente in cortocircuito l’economia. Quindi? Ventisette salari minimi? E come la mettiamo con i sindacati, storicamente contrari a questa misura che temono indebolisca la contrattazione?

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