Il Tar sospende il rigetto del Ministero per mancanza del certificato di valore e delle Apostille
Con questo titolo il sito Ricorsi scuola riporta una delle tante notizie relative al mondo dell’istruzione. Di cosa si tratta, in parole povere? Del fatto che alcuni docenti, dopo aver conseguito un’abilitazione all’estero (in Paesi facenti parte dell’Unione Europea), si sono visti rigettare dal Ministero dell’Istruzione e del Merito (sic!) il riconoscimento dell’abilitazione professionale. Motivazione? Mancavano le Apostille, ossia dei timbri inventati nel 1961 dalla Convenzione dell’Aja, che dovrebbero riconoscere “la qualità con cui opera il funzionario pubblico che ha sottoscritto il documento”. Tale strumento serviva, nel 1961, a mandare in pensione la legalizzazione del documento da parte delle autorità diplomatiche del Paese di provenienza; si trattava, dunque, di uno snellimento burocratico.
Da allora sono passati 7 decenni, durante i quali sono nate l’Unione Europea, la moneta unica, il trattato di Schengen; i titoli conseguiti in un Paese dell’UE dovrebbero quindi essere riconosciuti in modo automatico o quasi, almeno secondo svariate sentenze della magistratura italiana. Al Ministero dell’Istruzione e del Merito, tuttavia, “lavorano” diversi funzionari decisi ad ignorare tali sentenze sic et simpliciter, tant’è che ancora oggi continuano a richiedere questa documentazione (che ovviamente ha un costo per chi deve presentarla). Ben sapendo che, in caso di ricorso, il Ministero per cui “lavorano” uscirà molto probabilmente sconfitto.
L’interesse della vicenda dunque non risiede tanto nel caso specifico; non è questa la sede per discutere se il valore legale del titolo di studio debba essere abolito (per la cronaca: chi scrive è convinto di sì), o se quelle attuali siano le procedure migliori per selezionare il corpo docente nella scuola italiana (chi scrive è convinto di no). La vicenda è interessante in quanto emblematica del modo in cui opera quel “mondo di mezzo” tra politica e cittadini, ossia la casta dei burocrati. Una casta assai più potente e perniciosa di quella per antonomasia, ossia la politica: ché quest’ultima, almeno, ogni tot anni viene pur sottoposta al giudizio degli elettori, che hanno il potere (almeno teorico) di mandarla a casa.
I signori del tempo perso, come li definirono Giavazzi e Barbieri, sono individui dotati di un potere enorme: la presenza o assenza di un loro timbro su un qualche pezzo di carta può incidere sulla vita dei loro concittadini in modo determinante, talvolta anche drammatico. Al tempo stesso, almeno in Italia, un burocrate è qualcuno che percepisce uno stipendio fisso completamente svincolato dai risultati ottenuti, tanto in positivo quanto in negativo. Poco o nulla gli importerà, dunque, se i suoi atti provocheranno altri ricorsi al TAR, al termine dei quali l’Ente per cui lavora sarà condannato a rimborsare i ricorrenti.
C’è una lunga e nutrita bibliografia (che va da Carlo Levi ad Edward Banfield, fino ad arrivare a Serena Sileoni) sul rapporto perverso che lega il cittadino italiano alle istituzioni: un rapporto fondato in primis sulla reciproca sfiducia, ma che negli ultimi anni si è arricchito di un nuovo e fondamentale pilastro: la speranza, da parte dello Stato, che il cittadino rinunci ai propri diritti, sfiduciato dalla costosità e dalla lungaggine della giustizia.
Per restare all’universo del MIM, è senz’altro questo il caso della Carta del docente, il bonus da 500€ annui deciso nel 2015 dal Governo Renzi e destinato all’acquisto di libri, corsi, software, hardware, ingressi a mostre e altro. Di nuovo, e a scanso d’equivoci: chi scrive ritiene che questo, così come la stragrande maggioranza dei bonus elargiti in Italia, andrebbe abolito, e casomai convertito in aumento del netto in busta paga. Svariate sentenze hanno stabilito che tale bonus spetti anche ai docenti precari, a determinate condizioni (aver lavorato almeno 180 giorni consecutivi durante l’anno scolastico); la politica e la burocrazia avrebbero dunque tutte le giustificazioni e gli strumenti operativi per attuare questa erogazione in automatico. Eppure non lo fanno. Scelgono di non farlo, perché la loro speranza è palesemente quella che i potenziali beneficiari ignorino i loro diritti o, se li conoscono, siano talmente scoraggiati da costi e tempi della giustizia da rinunciare.
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